Quattro anni fa ho collaborato alla stesura di un breve romanzo in cui mancava la figura di un animale. L’autore mi aveva contattata per avere un parere sul suo scritto e aggiungere, se lo avessi ritenuto opportuno, la presenza di un cane.
Mi sono appassionata subito alla storia, tratta da fatti realmente accaduti. Fra le altre cose, parlava di api e di miele, ed è a loro – oltre alla mia Luna – che mi sono ispirata per scrivere le mie parti.
Quello che riporto di seguito è uno dei miei capitoli preferiti, e mi emoziono ancora oggi ogni volta che lo rileggo.
Miele porta Miele
La mattina seguente mi alzai, non so nemmeno io con quali forze dopo l’ennesima nottata insonne. Come un automa mi trascinai per casa e mi affacciai alla finestra che dava sulla casa che era stata di Irene. Con grande stupore notai qualcosa sotto al portico, una sorta di ‘ciambella’ color miele di cui non riuscivo a distinguere bene i contorni.
Inforcai gli occhiali e mi precipitai fuori di casa in pigiama e ciabatte. Man mano che mi avvicinavo mi resi conto che si trattava di un animale, sì, era un animale acciambellato su sé stesso con la testa nascosta in una foltissima coda. Sembrava una volpe, ne aveva i colori caratteristici, ma non era possibile che una volpe si fosse addentrata così tanto in città allontanandosi dal bosco. Guardai meglio e capii: era un cane. Un cane! Il mio sogno da bambino, il mio sogno da ragazzo, quel desiderio che mio padre non aveva mai capito e realizzato in tanti anni, nonostante avesse riempito la casa di tutta la tecnologia allora disponibile.
Scoppiai in un pianto liberatorio che svegliò la povera bestiola, pareva sfinita dalla fame e dalla fatica, talmente stremata che non ebbe la forza di allontanarsi da me. Aprì soltanto gli occhi e mi guardò con aria supplichevole come a dire: “Non scacciarmi anche tu, umano, ti prego”. Alzò leggermente il muso e rimasi folgorato da ciò che vidi: il labbro destro era più basso rispetto a quello sinistro e aveva una profonda ferita ormai in via di cicatrizzazione, forse il risultato di un impatto o, ahimè, di un colpo inferto di proposito da una persona cattiva.
Continuai ad avvicinarmi per accertarmi delle sue condizioni di salute: ero un oculista, è vero, ma forse sarei riuscito a capire se stava bene senza doverla portare subito da un veterinario. Quando le fui vicino si alzò a fatica e mi resi conto che era una femmina. Mi si avvicinò senza timore come se in me avesse riconosciuto un’anima buona e si fece accarezzare sulla schiena: era sporca ma aveva un pelo bello e folto, color miele. Non aveva medaglietta né collare, era sicuramente un cane randagio o abbandonato. Ed era un segno per me: Irene me l’aveva mandata per non lasciarmi solo nel mio dolore. L’avrei chiamata Miele, certo, quale nome migliore per ricordare il suo manto e, insieme, il dolcissimo nettare prodotto dalle api! Tutto tornava come in un puzzle, i pezzi combaciavano alla perfezione e non poteva essere un caso, non lo era affatto, vero Irene, tesoro mio?
Ero stremata, sfinita e molto affamata. Ero stanca di essere scacciata da tutti con sassi, bastoni e urla. Cosa facevo di male? Cercavo solo un po’ di cibo. I miei piccoli erano morti, non ero riuscita a sfamarli… e presto sarebbe toccato anche a me. Forse era giusto così visto che non ero stata in grado di salvarli.
Ormai rassegnata a lasciare questa vita, nel cuore della notte trovai finalmente un cancello aperto che non richiedesse troppe energie per essere scavalcato: le avevo esaurite tutte per sfuggire all’umano che, qualche giorno prima, mi aveva percossa violentemente con quell’arnese di ferro arrugginito ferendomi il muso. Credevo che sarei morta lì, invece ero sopravvissuta. E ora avevo trovato questo posto sicuro dove forse avrei potuto riposare un po’.
Varcai il cancello con cautela, nessun rumore, nessuna luce, nessun odore recente: la casa doveva essere vuota da qualche ora. Mi accoccolai sotto al portico in modo da poter scappare velocemente in caso di pericolo e… mi addormentai. Ero talmente sfinita che non sognai nulla. Finalmente! Era la prima notte che non rivedevo i miei cuccioli andarsene a uno a uno piangendo.
Al mattino stavo ancora dormendo quando un umano mi si avvicinò lentamente… ormai era tardi per andarmene, dovevo affrontarlo e fidarmi di lui. Non so per quale fortuna era una persona buona e, anzi, quando mi vide scoppiò a piangere. Mi accarezzò piano il pelo della schiena quasi sapesse che le carezze sulla testa non ci piacciono, soprattutto dagli sconosciuti. Cercò di capire se avessi male da qualche parte… era forse un dottore dei cani? Mi resi conto che potevo fidarmi di lui, la luce dei suoi occhi, dietro a quelle lenti di vetro, era pura e sincera.
Quando si alzò per andarsene, non staccando mai lo sguardo da me, decisi di seguirlo, comunque guardinga e pronta a scappare in caso di necessità. Abitava di fronte alla casa dove avevo dormito, un posto molto carino e accogliente, caldo, ci avrei vissuto molto volentieri con lui. Ma erano pensieri assurdi, lo conoscevo soltanto da dieci minuti… magari mi avrebbe cacciata la sera stessa.
Un profumo estasiante mi ridestò dai miei sogni a occhi aperti: era del pesce! Sì, davanti a me un piatto con un intero pesce tutto per me. Era un merluzzo, riconobbi l’odore perché era come quello che avevo rubato qualche settimana fa dalla tavola di una famiglia seduta all’aperto in un ristorante di gran classe. Me l’ero vista brutta quella volta, ma dovevo sfamare i miei piccoli… Mi buttai sul piatto come ero abituata a fare nella mia vita da randagia. Poi, guardandomi intorno, capii che nessuno me lo avrebbe potuto rubare: in quella cucina c’eravamo soltanto io e l’umano gentile dagli occhi tristissimi, che mi fissava come se avesse visto la cosa più bella della sua vita. Accanto al piatto aveva posato anche una pentola con dell’acqua fresca, che bevvi a grandi sorsi dopo aver mangiato anche l’ultima lisca di quel prelibato pasto. Lui non smetteva di fissarmi, a tratti piangeva, a tratti sorrideva e io non capivo perché. Sentivo solo che non mi avrebbe fatto alcun male e per me questo bastava.
Poi iniziò a pronunciare un nome: Miele, Miele… Miele! Forse ero io Miele?